Ricordo quel mattino. Ricordo la nebbia, tanto fitta dalle nostre, dal poterti soffocare. La nebbia. La nebbia ha un odore, un colore ed una sua consistenza; se filtra il verde intenso, quasi irreale, della campagna che circonda il palazzo dove, solitario, sono cresciuto; allorquando pare, con quel freddo che trasforma pur il respiro in bruma, mimetizzare i testardi rimasugli di neve ormai di prossima resa; se fende a tal punto la carreggiata da chiudere le pareti d’un limbo che par periodico; allora quella nebbia, è la mia nebbia. Riavviato, come spesso, dagli spari venatori, e, dalla fenditura, osservato il bianco spettacolo dell’indeterminato, mi vestii in fretta per godermi gli ultimi giorni di pigra purezza. In calzoni velluto, calze spesse nascoste dai gambali, odoroso maglione Aran, giacca e berretto in tweed a celare gli occhi entusiasti, di fretta piluccai un pezzo di pane imburrato ed un uovo. Mia madre era troppo affaccendata nei preparativi al ritorno in città per badare al