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CONFESSIONI DI UN UOMO SENZA MORALE cap. 2 - by Rigonondorme

- CONFESSIONI DI UN UOMO SENZA MORALE - 

A VISTA PAGATE 
PER QUESTO 
ASSEGNO BANCARIO 


 #DUE/00 


 NON TRASFERIBILE



Tette senza nome – divanetto di pelle – camicia sbottonata – caldo - culi troppo alti – champagne – luci sul buio – champagne – cameriere! - rossetto sbavato – striscia – champagne – cassa, rullo, clap - caldo, troppo caldo – striscia – ti piace qui? - cassa, rullo, clapclap - sudore – non respiro – questa sera ho speso 3 milioni - troppa gente – non respiro. 

Mi sveglio completamente sudato, nel mio letto, solo. 
I ricordi, nella lenta ripresa del sé, svaniscono come vapore, riportandomi a quel che sono oggi. Mi rimetto sul fianco sforzandomi di respirare normalmente. Dopo un’ora, fissando la mia vecchia bicicletta, mi riaddormento ritrovandomi nel 1974, quando il mio nome era per tutti, Rodolfo Masi, di padre alcolizzato e di madre operaia alla Bianchi Milano. Non mi potevo certo permettere un’istruzione universitaria. I miei erano originari di Vicenza ed io detestavo il loro accento; mi sforzavo in ogni modo di levarmi anche la minima cadenza da immigrato pezzente. 

Quell’anno mio padre fu investito e morì dopo qualche mese di sofferenza; lavoravo dieci ore al giorno e sognavo l’America come tutti i miei coetanei. Avevo diciannove anni ed ero diplomato in ragioneria. Ero il tuttofare in uno dei primi supermercati di Treviglio. Tenevo la contabilità, stavo al banco, caricavo i furgoni, gestivo gli ordini. Avevo trovato il modo di scremare, falsificando le bolle di consegna, del materiale per poi venderlo a pronta cassa nelle drogherie di Arzago, Caravaggio e Casirate, il mio paese. 

Erano anni in cui molti miei compaesani rubavano, dai camion di passaggio sulle nostre strade, le forme di Grana Padano destinate a Milano. Facevano un buon gruzzolo. Non io. Io non rubavo; io facevo sparire. Non me la passavo male, tutto considerato. Eravamo tra i pochi, io e mia madre, ad avere la televisione. Le mie ambizioni, tuttavia, non comprendevano il restare in quel merdaio fatto di desideri modesti, di case popolari, di mogli grasse inciabattate, di abiti passati dai fratelli maggiori; non ero fatto per accontentarmi di un auto per nucleo famigliare. 

Osservavo con sdegno le persone che ci circondavano. Come Lorenzo, il nostro vicino di pianerottolo. Tutto tronfio arrivava con la 128 bianca e tutti lo salutavano. Faceva il geometra lui. Faceva pena, a me. 

Ogni occasione mi era buona per andare a Milano. Ci andavo con la Bianchi che mia Madre, con enormi sacrifici, riuscì a comprare in fabbrica. Ancora oggi la conservo come reliquia. M’immedesimavo atleta del Giro, un Gimondi in fuga, verso una vita migliore. Vinta la tappa immaginaria, arrivato a Milano, osservavo la gente in via della Spiga oppure le persone che andavano alla Scala. 

A differenza dei miei amici io non li odiavo, io li ammiravo ed ambivo alle loro posizioni. Mi feci assegnare, dopo infinite richieste, alla sede centrale del supermercato; non era troppo distante da Porta Genova. Il guadagno se ne andava tutto per i biglietti del treno ma servivo gente che mi piaceva molto di più. 

Ad alcuni consegnavo la spesa a casa cercando ogni volta di stabilire un “contatto”. Adoravo camminare in quelle strade. L’energia m’invadeva ed avevo mille idee. Mia madre iniziò a frequentare un brav’uomo che poteva prendersi cura di lei e allora mi trasferii vicino al centro, in un monolocale. Era il 1976 e quella che sarebbe diventata la “Milano da bere” cominciava a prendere forma. 

Ora, dopo quasi 30 anni, mi ritrovo al punto di partenza ma con la consapevolezza che è meglio non aver mai avuto piuttosto che aver avuto e perso.

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